La Polizia ricorda Antonio Esposito, commissario nerviese ucciso negli anni di piombo

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E’ stata inaugurata, alla Questura di Genova, una sala conferenza in memoria del commissario capo Antonio Esposito, vittima di un attentato delle Brigate Rosse il 21 giugno 1978 e comandante della stazione di Nervi durante gli anni di piombo.

Alla cerimonia ha partecipato il capo della Polizia Franco Gabrielli.

Alla presenza delle autorità civili e militari, è stata scoperta una targa in ricordo di Antonio Esposito Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria.

Il commissario Esposito, 36 anni, sposato e con due figli, negli anni di piombo dirigeva il Commissariato di Genova Nervi, dopo essere stato per tre anni dirigente del nucleo antiterrorismo della Questura di Genova e avere lavorato nella squadra politica della Questura di Torino.

Questa la vicenda del 21 giugno 1978

La mattina del sabato 21 giugno 1978, il commissario Esposito, dopo aver accompagnato la moglie in Questura, intorno alle ore 8.30 salì a bordo dell’autobus di linea n. 15 per recarsi al lavoro al commissariato di Nervi; egli rientrava in servizio dopo due giorni di riposo. Salito sull’autobus, si sedette negli ultimi sedili sulla piattaforma posteriore; il commissario, che non era armato, ritenne verosimilmente che da quella posizione potesse controllare meglio i passeggeri. A bordo dell’autobus 15 erano presenti una ventina di persone, in apparenza tutti normali viaggiatori dall’aspetto anonimo.

Sulla base delle ricostruzioni fornite dagli inquirenti dopo il fatto, sembra che l’autista del bus, dopo aver raggiunto il quartiere di Albaro, rallentò nei pressi della fermata di via Pisa, mentre il commissario Esposito rimaneva sulla piattaforma posteriore; poco prima della fermata due giovani, dall’apparente età di circa trent’anni, vestiti elegantemente, che sembravano parlare tra loro vicino alla portiera, improvvisamente si avvicinarono al commissario e aprirono immediatamente il fuoco da distanza ravvicinata colpendo mortalmente la vittima. Sull’autobus si scatenò il panico, l’autista fermò immediatamente l’automezzo e aprì le portiere, mentre i due uomini avrebbero continuato a colpire il commissario già caduto a terra nei pressi della portiera posteriore; quindi scesero dall’autobus e salirono a bordo di una Fiat 128 blu con un altro brigatista a bordo, che presumibilmente aveva controllato l’autobus, e si accostò mentre l’automezzo rallentava per effettuare la fermata.

I componenti del gruppo di fuoco riuscirono quindi a fuggire e, dopo aver abbandonato quasi subito la Fiat 128, fecero perdere le loro tracce proseguendo la fuga su un’Alfa Romeo blu con targa Viterbo. Il commissario Esposito venne trasportato all’Ospedale ortopedico San Giorgio in via Pisa ma egli era già morto dopo essere stato raggiunto da almeno dieci colpi sparati da una pistola calibro 7,65 e una pistola calibro 9; le ricerche delle forze dell’ordine non diedero alcun risultato. La Fiat 128 blu fu ritrovata vicino al luogo dell’agguato e risultò rubata il giorno precedente, mentre gli identikit non diedero molte informazioni, descrivendo persone vestite con giacca e cravatta, capelli corti, senza baffi o barba, uno con gli occhiali.

Le scarse informazioni raccolte non permisero quindi inizialmente di identificare i responsabili materiali dell’agguato, e gli inquirenti parlarono anche della probabile presenza di militanti provenienti da altre regioni d’Italia estranei alla realtà genovese. Nella mattinata del 21 giugno le Brigate Rosse rivendicarono l’attentato con una telefonata al giornale Il Secolo XIX, affermando di aver “giustiziato Esposito Antonio” sull’autobus 15; due giorni dopo, lunedì 23 giugno, alle ore 13, l’organizzazione diffuse un documento di rivendicazione e di analisi politica dell’agguato, proprio mentre si svolgevano i funerali di Stato del commissario alla presenza del ministro degli Interni Virginio Rognoni e dei politici genovesi Paolo Emilio Taviani e Carlo Pastorino.

Nel documento brigatista fatto ritrovare in un cestino di rifiuti avvolto in una pagina del quotidiano l’Unità, si definiva il commissario Esposito “uomo di punta dell’apparato militare dello Stato Imperialista delle Multinazionali” e membro, prima del trasferimento a Genova, del “covo controrivoluzionario della questura torinese”. Il comunicato continuava accusando la vittima di aver proseguito attività di repressione contro la classe operaia e le sue “avanguardie” anche a Genova e concludeva, dopo un appello all’unificazione del cosiddetto “movimento di resistenza offensiva” con la costituzione del “Partito comunista combattente”, con una serie di violente e minacciose espressioni propagandistiche rivolte contro il “nuovo fascismo” e gli “apparati militari dello stato”.

Nonostante il fallimento iniziale delle indagini, a partire dal 1980 gli inquirenti furono in grado finalmente di ricostruire dettagliatamente la dinamica del processo decisionale all’interno delle Brigate Rosse e chiarire l’esatta meccanica e le responsabilità personali del sanguinoso evento criminale. Il primo a descrivere l’agguato fu Patrizio Peci, il dirigente della colonna torinese che, catturato il 19 febbraio 1980, dopo circa un mese di detenzione decise di collaborare con i carabinieri e fornì una ricostruzione dei fatti basata principalmente sulle notizie indirette apprese da uno dei membri del Comitato Esecutivo delle Brigate Rosse, Rocco Micaletto. Peci indicò i motivi della scelta del commissario Esposito come obiettivo dell’agguato mortale; egli spiegò che la decisione brigatista discendeva in primo luogo dalla precedente attività del dirigente di polizia nei nuclei antiterrorismo di Torino e Genova che si erano mostrati efficienti nel contrasto ai gruppi eversivi di estrema sinistra.

Secondo Peci le Brigate Rosse non ritennero che l’allontanamento di Esposito dai nuclei antiterrorismo e il suo trasferimento ad un commissariato periferico avessero cambiato realmente le sue funzioni; l’organizzazione interpretò il trasferimento di Esposito, come in precedenza quello del maresciallo Berardi, come manovre di opportunità tattica per trasportare la lotta al terrorismo direttamente sul territorio sotto la guida di questi esperti funzionari che quindi divennero obiettivi prioritari da colpire. L’organizzazione riteneva in questo modo di aver svelato i piani “repressivi” dello stato e di aver intaccato la “macchina repressiva”. Anche il brigatista Lauro Azzolini, all’epoca dei fatti membro del Comitato Esecutivo, ha confermato l’interpretazione fornita da Peci; egli ha descritto i timori delle Brigate Rosse per l’attività capillare in periferia dei commissariati e per la costituzione di una rete di informatori per individuare i clandestini e le strutture logistiche dell’organizzazione. Le Brigate Rosse avrebbero quindi deciso di colpire alcuni di questi esperti e capaci dirigenti, tra cui Berardi e Esposito, per frenare l’attività e interrompere il rafforzamento periferico dell’apparato di contrasto dello stato.